Disgrafia: cosa è e come prevenirla grazie al laboratorio grafo-motorio

disgrafia

Disgrafia: cos’è?

La disgrafia è un disturbo delle componenti esecutive-motorie della scrittura. Ne abbiamo già parlato in un altro nostro articolo mettendo in risalto la distinzione tra questo tipo di disturbo ed un altro, la disortografia

Disgrafia: quando si manifesta


Il bambino disgrafico incontra difficoltà in diversi ambiti. In primis quello grafo-motorio, poi di orientamento e integrazione spazio temporale.
Spesso inoltre si è soggetti a mancanza di coordinazione oculo-manuale e coordinazione dinamica generale e di dominanza laterale non adeguatamente acquisita. Senza contare poi discriminazione e memorizzazione visiva sequenziale.

La scrittura è la rappresentazione grafica dell’attività parlata e, dunque, per poter scrivere il bambino deve aver raggiunto buone capacità motorie, di discriminazione visiva, di coordinazione ed organizzazione spaziale. Infatti, per scrivere in maniera adeguata, è necessario mettere in atto movimenti specifici e caratteristici da attuare entro precisi vincoli temporali.
È fondamentale che tali prerequisiti raggiungano l’automatizzazione in modo da permettere l’integrazione di una prassi complessa, quale è la scrittura.

Disgrafia: come riconoscerla


La disgrafia è possibile riconoscerla già in tenera età grazie al pregrafismo. Questa attività è dedicata al perfezionamento delle abilità propedeutiche all’apprendimento della scrittura.

Il fine ultimo è quello di garantire un passaggio semplice e sereno alla scuola elementare. Così facendo si garantisce una stimolazione ed un potenziamento dell’apprendimento della scrittura ed evidenziare in maniera precoce eventuali difficoltà di scrittura, al fine di prevenirle.

Laboratorio grafio-motorio: un aiuto verso la disgrafia

Il laboratorio grafo-motorio presenta delle attività che mirano alla stimolazione e al potenziamento dei prerequisiti motori specifici della scrittura, quali:

  • coordinazione dinamica dell’arto superiore, che include la presa di coscienza dell’uso differenziato del segmento corporeo, al fine di rendere possibile la posizione del braccio, sulla quale si attiva la manualità fine della mano.
  • motricità fine, caratterizzata da diverse caratteristiche quali la precisione, ovvero sia isolare movimenti interessati dalla scrittura; forza muscolare, per consentire i movimenti in estensione base della scrittura; coordinazione neuromuscolare che consente la fluidità di scrittura; automaticità dei movimenti.

La “motoricità fine” influenza la presa dello strumento grafico, la quale conosce diversi stadi di sviluppo: prensione a pugno palmare, a pugno digitale e con le tre dita.
In quest’ultima il pollice e l’indice tengono lo strumento, il medio lo sorregge, anulare e mignolo stabilizzano la posizione sul piano di lavoro.

L’obiettivo degli esercizi inclusi nel laboratorio logopedico è lo sviluppo di tale posizione permettendo una coordinazione neuromuscolare efficace. Questa potrà essere potenziata e stimolata anche attraverso l’uso dell’impugna facile, che garantisce il mantenimento della posizione durante lo svolgimento delle schede di pregrafismo.

Fondamentale sarà anche la posizione della mano rispetto al piano di lavoro, la quale dovrà essere al di sotto della linea di scrittura.

Coordinazione oculo-manuale

Coordinazione oculo-manuale: capacità di controllo e regolamentazione dei movimenti dell’arto superiore e della mano, movimenti controllati dall’occhio. Il controllo visivo è fondamentale per la guida del movimento durante l’apprendimento della scrittura.
In conclusione il laboratorio grafo-motorio ci permette di integrare la dimensione dell’educazione e della riabilitazione, sottolineandone la profonda relazione data dalla finalità comune di sviluppo delle competenze prassico-motorie e grafo-motorie, in funzione dell’apprendimento della scrittura.

Per ciò il laboratorio si presenta come uno strumento di insegnamento e di apprendimento della scrittura nella sua componente grafo-motoria esecutiva.

 

Il bambino che non parla: che cosa fare?

Bambino che non parla

Il bambino che non parla è tema di grande discussione. In questo articolo cercheremo di rispondere in maniera esaustiva alle domande che molti genitori si pongono, alla quale desiderano avere risposte concrete.

“Perché mio figlio non parla?”. Oppure: “Perché mio figlio parla poco e/o non si esprime in modo appropriato rispetto alla sua età cronologica?”. E ancora: “Mio figlio recupererà in fretta il suo ritardo linguistico o rimarrà più indietro degli altri?”.

L’importanza del linguaggio può indurci a pensare che “imparare a parlare” sia totalmente regolato da fattori interni, di tipo biologico. Una capacità così vitale alla sopravvivenza della specie dovrebbe essere robusta e insensibile alla varietà delle condizioni ambientali. 

Tuttavia i ritmi di sviluppo del linguaggio mostrano una notevole variabilità inter individuale.
Una diversità dovuta sia a fattori biologici, sia a fattori ambientali. Questi sono:
minore o maggiore stimolazione in ambito familiare, inserimento precoce a scuola, presenza di fratelli o sorelle e così via.

Il bambino che non parla: le lacune nelle competenze comunicative

Alcuni bambini, già a due anni possiedono un vocabolario ricco e una notevole capacità d’espressione, altri alla stessa età dicono solo poche parole isolate.

Nonostante ogni bambino abbia tempi e modi estremamente personali di imparare a parlare, è importante per un genitore essere al corrente del fatto che comunicare con il linguaggio parlato implica l’acquisizione di specifiche capacità in quattro aree distinte:

  • Fonologia, cioè la capacità di riconoscere, distinguere e produrre suoni linguistici diversi. Il fonema è la più piccola unità di suono che si utilizza per differenziare le parole di una lingua; Semantica, che riguarda il significato delle parole e delle frasi;
  • Sintassi, insieme di principi che governano il modo in cui parole e altri morfemi (unità minima di fonemi dotati di significato), sono ordinati per formare una frase possibile in una data lingua (es. l’ordine delle parole in una frase);
  • Pragmatica, la capacità di modulare e comprendere i significati in relazione agli aspetti contestuali (verbale e non verbale). Il significato di parole e frasi può variare in relazione al contesto nel quale vengono pronunciate e all’intenzione del parlante.

Come qualsiasi altra abilità, anche la comunicazione va educata. Il miglior sviluppo possibile si ha quando il bambino che non parla sente di essere collocato in gruppo.
Attraverso un coinvolgimento diretto acquisisce competenze comunicative e linguistiche partendo da esperienze significative. Tali esperienze sono inizialmente collocate ai suoi bisogni primari e poi ad avvenimenti nei quali può impegnarsi ed interagire con altre figure importanti: familiari, amici, coetanei, educatori.

Le fasi della comunicazione del bambino

È ormai certo che il bambino impara prima le parole e poi, solo successivamente, utilizza i suoni delle prime parole per formarne delle nuove (competenza fonologica).
Questo spiega perché, talvolta, alcune consonanti sono prodotte correttamente in una parola e non in altre, ed anche perché, per intervenire sulla pronuncia di un bambino è necessario che egli abbia un vocabolario sufficientemente esteso.

Dopo i tre anni il bambino struttura il suo sistema fonologico e, con grande creatività, produce progressivamente suoni nuovi e sequenze sempre diverse fino a raggiungere la produzione adulta corretta. Non tutti i suoni raggiungono la maturità articolatoria con la stessa rapidità: le vocali, che nella lingua italiana sono piuttosto semplici, sono acquisite velocemente, al contrario, i dittonghi con più difficoltà.

Fra le consonanti, sicuramente quelle bilabiali (/p/ /b/ /m/), sono le prime a comparire tuttavia le difficoltà ad articolare una consonante non dipendono solo dal suono in se stesso, ma anche dalla posizione in cui si trova all’interno della parola e dai suoni che lo precedono e lo seguono; ad esempio il bambino potrà dire /atte/ per /latte/, omettendo quindi la consonante /l/ ad inizio di parola, ma articolarla correttamente all’interno della parola /palla/. Questa fase dello sviluppo è assolutamente imprevedibile ed individuale, ciò implica una grande variabilità tra i bambini.


Come il contesto abituale si connette con la fonetica


Durante l’apprendimento del linguaggio è molto importante valutare non solo la quantità di parole che il bambino dice ma, soprattutto, come vengono usate.
Infatti all’inizio della verbalizzazione le parole sono utilizzate unitariamente all’azione compiuta, ad esempio il bambino dice pappa, mentre mangia o mentre gioca con il cucchiaio. In seguito, la parola anticipa o ricorda un’azione: es. /palla papà/ può indicare una richiesta /papà andiamo a giocare a palla/ o può definire un avvenimento: /sono andato a giocare a palla con il papà/.

Successivamente il bambino si serve delle parole anche fuori del loro contesto abituale.
Ad es. quando il bambino dice /papà/, indicando le scarpe del genitore che in quel momento non c’è, può specificare che quelle sono le scarpe del papà. La parola è inizialmente usata perché la situazione la richiede e, come l’azione, essa è parte di un contesto.

Esiste un percorso comune ad ogni bambino nell’ambito del quale possono essere identificate delle età di riferimento:

  • 3-5 mesi
    Il bambino utilizza pianti, gorgheggi, sorrisi, gridolini, ma ancora in modo non intenzionale. L’adulto gioca, imitando il bambino, ed il bambino tenta di imitare l’adulto in un primo gioco di scambio comunicativo.
  • 6-8 mesi
    Il bambino inizia ad esercitare gli organi articolatori e uditivi, giocando con i primi suoni della lingua. È il periodo della “lallazione”, in cui produce sequenze di sillabe (da-da-da, la-la-la) per ilo solo piacere di ascoltarsi.
  • 9-12 mesi
    Il bambino indica, mostra oggetti, li dà. Ancora non usa vere parole, ma ne comprende molte di quelle utilizzate dagli adulti e si avvale di questi gesti per comunicare i suoi interessi ed entrare in relazione con gli altri.
  • 12-16 mesi
    Intorno all’anno il bambino comincia a pronunciare le prime parole.

    È, inoltre, molto bravo a comunicare con i gesti: fa “no” con la testa, apre le braccia per fare”non c’è più”, fa il verso del pesce con la bocca.
  • 16-18 mesi
    Il bambino capisce che tutte le cose hanno un nome. Impara velocemente le nuove parole. ancora usa parole e gesti insieme per comunicare.
  • 18-24 mesi
    Il vocabolario del bambino è di 50 o più parole. Adesso riesce ad associare due o più parole per raccontare o descrivere ciò che sta vivendo.
  • 2-3 anni
    Le sue frasi sono costruite meglio, il vocabolario si diversifica. Usa aggettivi, verbi, a volte coniugandoli. 3-4 anni

    Il bambino inizia ad usare parole astratte, pronomi, preposizioni. Aumenta anche la comprensione del linguaggio nelle attività quotidiane. L’acquisizione della grammatica e dell’uso dei suoni del linguaggio è ora completata. Da ora in poi ci sarà solo un progressivo incremento del lessico e un affinamento nell’organizzazione sintattica delle frasi.

    Può succedere, però, che in alcuni casi, sotto l’influenza di diversi fattori, il linguaggio del bambino non si sviluppi armoniosamente.

Il bambino che non parla: quali sono le cause

 

  • Organiche (perdite uditive, sindromi genetiche, epilessie, lesioni cerebrali,…);
  • Non organiche (problemi emotivo-relazionali importanti);
  • Non accertabili (disturbi che riguardano specificatamente il linguaggio, in assenza di patologie fisiche evidenti).

Il primo passo nell’identificare la causa del ritardo del linguaggio, prevede l’acquisizione della storia completa della gravidanza e del parto, delle tappe evolutive e la storia della famiglia. La storia di qualsiasi trauma, prematurità, asfissia, o infezioni congenite intrauterine che possono danneggiare il sistema nervoso centrale dovrebbe mettere il medico in allerta.

I bambini con una storia di sordità o che hanno avuto una meningite batterica o un ricorrente o persistente otite media sono a rischio di sviluppare un ritardo della parola e del linguaggio.
Un disturbo espressivo del linguaggio riportato in bambini con otite media ricorrente. Come risultato la prevalenza della sordità nell’infanzia che ammonta a circa il 2-3% alla nascita, raddoppia quando si includono le perdite di udito acquisite.

Una buona valutazione clinica incluso uno studio meticoloso del sistema nervoso centrale e delle strutture dell’orecchio del naso e della gola sono obbligatorie.
Nel caso in cui ci trovassimo di fronte ad una palese regressione o variazione nella gravità del linguaggio, una elettroencefalografia durante il sonno può essere utile a riconoscere una epilessia sub-clinica o sindromi come quella di Landau-Kleffner.

Segnali di rischio per i disturbi del linguaggio


Il bambino a qualsiasi età non reagisce ai suoni
, non si muove o si agita quando si provoca un suono, assenza lallazione a 9 mesi.

  • Tra i 18 e i 24 mesi non dice alcuna parola;
  • Dopo i 2 anni non esegue semplici comandi verbali;
  • Ad ogni età ha una voce strana e sgradevole

E’ necessario un controllo tempestivo, per accertarsi se esistano problemi uditivi, di linguaggio o di altra natura. La precocità nella diagnosi è infatti fondamentale per la buona riuscita di qualsiasi tipo di trattamento. La valutazione logopedica deve sempre essere preceduta da una valutazione neuropsichiatrica infantile. Questa valutazione permetterà di rilevare eventuali disturbi neurologici e/o psichici alla base dell’alterazione del linguaggio e/o ad esso associati.

Il lavoro del logopedista sul bambino che non parla

Il logopedista esamina le capacità conversazionali del bambino e le sue capacità di esprimersi attraverso il linguaggio tramite prove e colloqui allo scopo di individuare i suoi punti deboli e i suoi punti di forza. La valutazione logopedica comprende un primo colloquio con i genitori per raccogliere informazioni sullo sviluppo comunicativo e linguistico del bambino e sulle sue modalità comunicative con una breve osservazione del bambino e la compilazione della sua cartella.

La valutazione del linguaggio avviene sempre in contesti ludici con somministrazione di test standardizzati. I test permettono di comprendere l’esistenza di un ritardo e la sua entità.

La percentuale di bambini con un forte ritardo linguistico a due anni oscilla tra il 9% e il 17% con una prevalenza di maschi rispetto alle femmine.
I bambini che parlano tardi vengono in genere identificati con questo criterio: producono meno di dieci parole diverse ( nella fascia di età 18-23 mesi) o producono meno di 50 parole diverse e nessuna combinazione di almeno due parole (nella fascia di età di 24-34 mesi).

L’ampiezza del lessico di produzione viene in genere stabilita attraverso un questionario fornito ai genitori (Caselli & Casadio, 1995), ma viene poi riesaminata attraverso osservazioni dirette. E’ importante escludere che ci siano fattori cognitivi, percettivi, neurologici, alla base del ritardo linguistico. Questo viene in genere appurato somministrando un test di efficienza intellettiva (ad esempio, le “scale Bailey” che valutano lo sviluppo senso motorio), compiendo un esame audiologico e neurologico.

E’ anche importante stabilire se il bambino abbia una comprensione lessicale buona, utilizzando ancora una volta un questionario per i genitori oppure qualche semplice test di conoscenza lessicale.
Vengono definiti “bambini che parlano tardi” (late talkers, [leittokes]) i soggetti che hanno un normale sviluppo intellettivo e socio-affettivo, e che non hanno alcun apparente danno neurologico.

Una comune caratteristica dei bambini che parlano tardi è un forte ritardo fonologico che si accompagna al ritardo nella produzione lessicale.
Molti bambini che a due anni hanno una produzione fonologica e lessicale immatura, tipica di soggetti più piccoli, intorno ai tre anni sembrano aver recuperato il ritardo: hanno un lessico piuttosto ampio, molti dei loro enunciati sono comprensibili e iniziano a combinare parole.
Questi bambini sono definiti in inglese con una graziosa espressione, late bloomers ([leitblumes]), bambini che sbocciano tardi.

Roberts, Rescorla, e collaboratori (1998) hanno osservato a 3 anni un gruppo di bambini che erano stati identificati per il loro ritardo linguistico tra i 24 e 31 mesi di età. Rivedendoli a 3 anni, circa la metà dei soggetti può considerarsi late bloomers: produce un numero di enunciati comprensibili equivalente a quello di un gruppo di controllo (19 bambini di 3 anni, con sviluppo linguistico tipico), anche se la loro produzione fonologica è ancora più indietro rispetto al gruppo di controllo. Anche le frasi sono più brevi e meno complesse sintatticamente rispetto al gruppo di controllo.

Altri studi permettono di individuare le caratteristiche del ritardo linguistico che sono maggiormente predittive dello sviluppo linguistico successivo. Per un bambino che a due anni produce pochissime parole (nell’ordine della decina), la probabilità di avere un rapido progresso a livello lessicale dipende dal suo livello di sviluppo fonologico, che può essere indicato dai diversi tipi di consonanti che sa utilizzare.

La probabilità di recuperare a livello di sviluppo sintattico entro i tre anni non può invece essere predetta né dallo sviluppo fonologico né da quello lessicale, ma soltanto dall’età di comparsa delle prime combinazioni di parole (Mirak & Rescorla, 1998). I bambinI che intorno ai 31 mesi non producono alcun enunciato con una combinazione di almeno due parole hanno un’alta probabilità di mantenere il ritardo nello sviluppo sintattico anche a 3 anni.
Per molti bambini il ritardo linguistico sembra risolversi nell’età prescolare tra i 4 e i 5 anni, ma per alcuni il ritardo si prolunga.
Per i bambini che hanno un ritardo di linguaggio a 4-5 anni si usa il termine “disturbo specifico di linguaggio” (DSL).

Alcune procedure sono fondamentali per compiere una diagnosi di disturbo specifico di linguaggio: Stabilire (attraverso test standardizzati) se il linguaggio del bambino è in ritardo nella produzione fonologica, e/o lessicale, e/o sintattico-morfologica.
Stabilire se c’è un ritardo nella comprensione di enunciati con diverse strutture grammaticali. Osservare, in una situazione il più naturale possibile per il bambino, la sua capacità di comprendere il linguaggio e di farsi capire attraverso il linguaggio.

Escludere, somministrando test di sviluppo cognitivo e motorio, che il ritardo linguistico sia parte di un più generale ritardo di sviluppo.
Escludere che vi sia un disturbo della comunicazione di origine emotiva, o un deficit uditivo o un impedimento fisico all’articolazione.

Una comune classificazione del disturbo specifico di linguaggio distingue tre sottotipi (cfr. Cipriani e Chilosi, 1995): un disturbo specifico in cui la difficoltà è limitata al livello fonologico un disturbo del linguaggio “espressivo”. In questo caso le difficoltà interessano sia la fonologia sia la struttura sintattica e morfologica ma sono limitate alla produzione linguistica e non riguardano la comprensione un disturbo del linguaggio “recettivo”, in cui la comprensione, oltre che la produzione di enunciati risulta deficitaria.

Se non vengono precocemente diagnosticati e trattati in maniera adeguata i DSL possono avere serie ripercussioni sul funzionamento individuale e sociale del soggetto.Tra le conseguenze più frequenti vanno segnalate problematiche di tipo emotivo e comportamentale e, con l’ingresso nella scuola, difficoltà di apprendimento.

Con il termine “Disturbi specifici dell’Apprendimento” (DSA) ci si riferisce ad un gruppo eterogeneo di disordini che si manifestano con difficoltà nell’acquisizione e nell’utilizzo di abilità di lettura, scrittura, ragionamento logico e matematica. La causa di questi disturbi è di natura organica. Presumibilmente legata a disfunzioni del sistema nervoso centrale e non può essere attribuita alla presenza di altre condizioni di handicap. All’interno della categoria dei DSA rientrano una serie di disturbi indipendenti l’uno dall’altro, ma che spesso si presentano in maniera associata, tra i quali: “disturbo specifico di lettura”, “disturbo specifico di comprensione del testo scritto”, “disturbo specifico di scrittura”, e “disturbo specifico del sistema dei numeri e del calcolo”.

Il “disturbo specifico di lettura” (dislessia) (incidenza 2%-2,5%) è un disturbo inerente all’acquisizione e all’automatizzazione delle capacità di decodifica del materiale scritto. Da un punto di vista clinico, la lettura di un bambino dislessico risulta essere molto lenta (deficit di rapidità) e/o ricca di errori (deficit di accuratezza). A queste difficoltà spesso si aggiungono secondariamente problemi nel comprendere ciò che è stato letto. In molti casi la dislessia si presenta in comorbidità con altri disturbi specifici dell’apprendimento (disortografia e discalculia) e con deficit di natura attentiva.

Uno dei concetti chiave nella diagnosi della dislessia è quello di discrepanza tra le abilità di lettura del soggetto e il livello generale di intelligenza. Questa, non eseguibile prima della fine della seconda elementare, si basa su prove di lettura di liste di parole di diversa lunghezza, di non parole e di brani. I principali fattori di rischio per la dislessia sono: la familiarità per il disturbo e la presenza di disturbi del linguaggio, anche se risolti in età prescolare.

Un altro disturbo che si colloca all’interno dei DSA è il “disturbo specifico di comprensione del testo scritto”. Comprendere un brano è un’attività estremamente complessa che richiede di far fronte a diverse difficoltà di natura lessicale, semantica e morfo-sintattica e che si basa su buone capacità di tipo metacognitivo (capacità sulle quali, nella maggior parte dei casi è mirato l’intervento). Uno degli strumenti che vengono utilizzati per la diagnosi sono le “prove MT di comprensione” (Cornoldi e Colpo, 1998, 1995). È abbastanza raro riscontare un disturbo specifico di comprensione in assenza di altre difficoltà. Deficit di comprensione avranno pesanti ripercussioni su tutte le materie scolastiche.

La disgrafia: un disturbo che colpisce i bambini

Oltre a problemi inerenti alla lettura, possono rincontrarsi nei bambini deficit che riguardano i processi di scrittura. Con il termine “disturbo specifico di scrittura” si fa riferimento principalmente alla disgrafia ed alla disortografia. E’importante comunque distinguere bene le due cose (clicca qui per approfondire nel nostro articolo).

La disgrafia consiste in un deficit nella realizzazione grafica del segno scritto, mentre la disortografia è un disturbo caratterizzato da deficit nelle abilità di compitazione e, quindi dalla presenza di errori di tipo ortografico. Tra questi errori vanno menzionati: confusione tra fonemi simili, confusione tra grafemi simili, omissioni doppie, etc. Le prove utilizzate per la diagnosi fanno parte della “Batteria per la valutazione della dislessia e disortografia evolutiva (Sartori, Job e Tressoldi, 1995).

Infine tra i DSA va segnalato il “disturbo specifico del sistema dei numeri e del calcolo”. In questo caso le difficoltà riguardano soprattutto le abilità numeriche di base: conteggio all’indietro, trancodifica di numeri lunghi e complessi e recupero dei fatti aritmetici. Accanto a questi problemi vanno poi menzionati deficit inerenti alle procedure di calcolo. Tra gli strumenti diagnostici per la discalculia va ricordato l’ABCA, test delle abilità di calcolo aritmetico (Lucangeli, Tressoldi, Fiore, 1998).

La prima cosa da tenere a mente quando ci si trova di fronte ad un DSA è che è un problema derivante dalla mancanza di impegno o intelligenza. È molto importante effettuare una diagnosi adeguata e precoce e che questa venga compresa e condivisa dalla famiglia e dalla scuola. Spesso i bambini con DSA vengono rimproverati per le loro difficoltà ed il loro disturbo non trova alcuna legittimazione. Questo può portare a conseguenze serie come: disturbi del comportamento, disturbi emotivi e dispersione scolastica. Per quanto riguarda il trattamento, questo cambia in base alla gravità e all’età in cui viene fatta la diagnosi. In molti casi l’obiettivo non deve essere la guarigione, ma il raggiungimento di un buon grado di autonomia attraverso la compensazione.

Esistono programmi di videoscrittura e di lettura di brani da parte del computer. Soprattutto esistono leggi che tutelano il bambino con DSA all’interno della scuola.

Disgrafia: come distinguerla dalla disortografia

disgrafia

Il termine disgrafia evidenzia una carenza nella realizzazione del tratto grafico di scrittura. Sussiste dunque una compromissione specifica a livello di leggibilità e/o di rapidità di esecuzione.

Disgrafia e disortografia: come riconoscerle e come differenziarle

Disgrafia e disortografia vanno differenziate in quanto non sono presi in considerazione altri aspetti dell’apprendimento della scrittura. A livello di diagnosi la disgrafia pone una questione tuttora irrisolta. Bisogna infatti comprendere se tratti di un disturbo più ampio oppure di un disturbo a sé stante. E’ possibile tuttavia individuarne le caratteristiche principali.

Disgrafia come riconoscerla tra i bambini?

Prima di porre diagnosi di disgrafia riteniamo necessario considerare le seguenti importanti premesse:

– L’abilità dello scrivere (così come quella del leggere, del contare ecc.) deve essere insegnata e imparata.
E’ bene pertanto considerare sempre la situazione scolastica e familiare e non solo le caratteristiche individuali del bambino.
– Non è possibile porre diagnosi di DSA (disturbi specifici di apprendimento), quindi neanche di disgrafia, se non sono presenti fattori esterni che determinano un basso rendimento scolastico, come ad esempio istruzione non adeguata e assenze frequenti a scuola.
– È bene domandarsi se la segnalazione da parte dell’insegnante o dei genitori riguardi un momento transitorio di difficoltà di apprendimento o sia espressione di un disagio scolastico da definire.

E’ importante verificare sempre che la qualità dell’insegnamento ricevuto sia adeguata così da non confondersi con un disturbo di una certa gravità. Queste situazioni infatti vengono spesso confuse generando così solo gran disorientamento e scoraggiamento tanto nei genitori quanto nel bambino.

Come trattare questo disturbo logopedico

Considerando quanto sopra premesso, riteniamo utile un percorso incentrato sulla direzionalità del segno dove il bambino sia seguito nella realizzazione del tratto grafico (linee, forme) inizialmente all’interno di quadretti da 1 cm e in seguito all’interno di spazi più ristretti e limitati. E’ importante considerare anche la dimestichezza con il mezzo grafico (matita, penna).
Essa può essere facilitata dall’utilizzo di appositi gommini o “impugna facile”, caratterizzati da tre punti di appoggio al fine di gestire lo strumento grafico in maniera adeguata. In questo modo il bambino potrà acquisire una buona capacità di realizzazione del tratto grafico, quindi scrivere con minore difficoltà e maggiore fluidità lettere dello stampato, corsivo e numeri.