Il bambino che non parla: che cosa fare?

Bambino che non parla

Il bambino che non parla è tema di grande discussione. In questo articolo cercheremo di rispondere in maniera esaustiva alle domande che molti genitori si pongono, alla quale desiderano avere risposte concrete.

“Perché mio figlio non parla?”. Oppure: “Perché mio figlio parla poco e/o non si esprime in modo appropriato rispetto alla sua età cronologica?”. E ancora: “Mio figlio recupererà in fretta il suo ritardo linguistico o rimarrà più indietro degli altri?”.

L’importanza del linguaggio può indurci a pensare che “imparare a parlare” sia totalmente regolato da fattori interni, di tipo biologico. Una capacità così vitale alla sopravvivenza della specie dovrebbe essere robusta e insensibile alla varietà delle condizioni ambientali. 

Tuttavia i ritmi di sviluppo del linguaggio mostrano una notevole variabilità inter individuale.
Una diversità dovuta sia a fattori biologici, sia a fattori ambientali. Questi sono:
minore o maggiore stimolazione in ambito familiare, inserimento precoce a scuola, presenza di fratelli o sorelle e così via.

Il bambino che non parla: le lacune nelle competenze comunicative

Alcuni bambini, già a due anni possiedono un vocabolario ricco e una notevole capacità d’espressione, altri alla stessa età dicono solo poche parole isolate.

Nonostante ogni bambino abbia tempi e modi estremamente personali di imparare a parlare, è importante per un genitore essere al corrente del fatto che comunicare con il linguaggio parlato implica l’acquisizione di specifiche capacità in quattro aree distinte:

  • Fonologia, cioè la capacità di riconoscere, distinguere e produrre suoni linguistici diversi. Il fonema è la più piccola unità di suono che si utilizza per differenziare le parole di una lingua; Semantica, che riguarda il significato delle parole e delle frasi;
  • Sintassi, insieme di principi che governano il modo in cui parole e altri morfemi (unità minima di fonemi dotati di significato), sono ordinati per formare una frase possibile in una data lingua (es. l’ordine delle parole in una frase);
  • Pragmatica, la capacità di modulare e comprendere i significati in relazione agli aspetti contestuali (verbale e non verbale). Il significato di parole e frasi può variare in relazione al contesto nel quale vengono pronunciate e all’intenzione del parlante.

Come qualsiasi altra abilità, anche la comunicazione va educata. Il miglior sviluppo possibile si ha quando il bambino che non parla sente di essere collocato in gruppo.
Attraverso un coinvolgimento diretto acquisisce competenze comunicative e linguistiche partendo da esperienze significative. Tali esperienze sono inizialmente collocate ai suoi bisogni primari e poi ad avvenimenti nei quali può impegnarsi ed interagire con altre figure importanti: familiari, amici, coetanei, educatori.

Le fasi della comunicazione del bambino

È ormai certo che il bambino impara prima le parole e poi, solo successivamente, utilizza i suoni delle prime parole per formarne delle nuove (competenza fonologica).
Questo spiega perché, talvolta, alcune consonanti sono prodotte correttamente in una parola e non in altre, ed anche perché, per intervenire sulla pronuncia di un bambino è necessario che egli abbia un vocabolario sufficientemente esteso.

Dopo i tre anni il bambino struttura il suo sistema fonologico e, con grande creatività, produce progressivamente suoni nuovi e sequenze sempre diverse fino a raggiungere la produzione adulta corretta. Non tutti i suoni raggiungono la maturità articolatoria con la stessa rapidità: le vocali, che nella lingua italiana sono piuttosto semplici, sono acquisite velocemente, al contrario, i dittonghi con più difficoltà.

Fra le consonanti, sicuramente quelle bilabiali (/p/ /b/ /m/), sono le prime a comparire tuttavia le difficoltà ad articolare una consonante non dipendono solo dal suono in se stesso, ma anche dalla posizione in cui si trova all’interno della parola e dai suoni che lo precedono e lo seguono; ad esempio il bambino potrà dire /atte/ per /latte/, omettendo quindi la consonante /l/ ad inizio di parola, ma articolarla correttamente all’interno della parola /palla/. Questa fase dello sviluppo è assolutamente imprevedibile ed individuale, ciò implica una grande variabilità tra i bambini.


Come il contesto abituale si connette con la fonetica


Durante l’apprendimento del linguaggio è molto importante valutare non solo la quantità di parole che il bambino dice ma, soprattutto, come vengono usate.
Infatti all’inizio della verbalizzazione le parole sono utilizzate unitariamente all’azione compiuta, ad esempio il bambino dice pappa, mentre mangia o mentre gioca con il cucchiaio. In seguito, la parola anticipa o ricorda un’azione: es. /palla papà/ può indicare una richiesta /papà andiamo a giocare a palla/ o può definire un avvenimento: /sono andato a giocare a palla con il papà/.

Successivamente il bambino si serve delle parole anche fuori del loro contesto abituale.
Ad es. quando il bambino dice /papà/, indicando le scarpe del genitore che in quel momento non c’è, può specificare che quelle sono le scarpe del papà. La parola è inizialmente usata perché la situazione la richiede e, come l’azione, essa è parte di un contesto.

Esiste un percorso comune ad ogni bambino nell’ambito del quale possono essere identificate delle età di riferimento:

  • 3-5 mesi
    Il bambino utilizza pianti, gorgheggi, sorrisi, gridolini, ma ancora in modo non intenzionale. L’adulto gioca, imitando il bambino, ed il bambino tenta di imitare l’adulto in un primo gioco di scambio comunicativo.
  • 6-8 mesi
    Il bambino inizia ad esercitare gli organi articolatori e uditivi, giocando con i primi suoni della lingua. È il periodo della “lallazione”, in cui produce sequenze di sillabe (da-da-da, la-la-la) per ilo solo piacere di ascoltarsi.
  • 9-12 mesi
    Il bambino indica, mostra oggetti, li dà. Ancora non usa vere parole, ma ne comprende molte di quelle utilizzate dagli adulti e si avvale di questi gesti per comunicare i suoi interessi ed entrare in relazione con gli altri.
  • 12-16 mesi
    Intorno all’anno il bambino comincia a pronunciare le prime parole.

    È, inoltre, molto bravo a comunicare con i gesti: fa “no” con la testa, apre le braccia per fare”non c’è più”, fa il verso del pesce con la bocca.
  • 16-18 mesi
    Il bambino capisce che tutte le cose hanno un nome. Impara velocemente le nuove parole. ancora usa parole e gesti insieme per comunicare.
  • 18-24 mesi
    Il vocabolario del bambino è di 50 o più parole. Adesso riesce ad associare due o più parole per raccontare o descrivere ciò che sta vivendo.
  • 2-3 anni
    Le sue frasi sono costruite meglio, il vocabolario si diversifica. Usa aggettivi, verbi, a volte coniugandoli. 3-4 anni

    Il bambino inizia ad usare parole astratte, pronomi, preposizioni. Aumenta anche la comprensione del linguaggio nelle attività quotidiane. L’acquisizione della grammatica e dell’uso dei suoni del linguaggio è ora completata. Da ora in poi ci sarà solo un progressivo incremento del lessico e un affinamento nell’organizzazione sintattica delle frasi.

    Può succedere, però, che in alcuni casi, sotto l’influenza di diversi fattori, il linguaggio del bambino non si sviluppi armoniosamente.

Il bambino che non parla: quali sono le cause

 

  • Organiche (perdite uditive, sindromi genetiche, epilessie, lesioni cerebrali,…);
  • Non organiche (problemi emotivo-relazionali importanti);
  • Non accertabili (disturbi che riguardano specificatamente il linguaggio, in assenza di patologie fisiche evidenti).

Il primo passo nell’identificare la causa del ritardo del linguaggio, prevede l’acquisizione della storia completa della gravidanza e del parto, delle tappe evolutive e la storia della famiglia. La storia di qualsiasi trauma, prematurità, asfissia, o infezioni congenite intrauterine che possono danneggiare il sistema nervoso centrale dovrebbe mettere il medico in allerta.

I bambini con una storia di sordità o che hanno avuto una meningite batterica o un ricorrente o persistente otite media sono a rischio di sviluppare un ritardo della parola e del linguaggio.
Un disturbo espressivo del linguaggio riportato in bambini con otite media ricorrente. Come risultato la prevalenza della sordità nell’infanzia che ammonta a circa il 2-3% alla nascita, raddoppia quando si includono le perdite di udito acquisite.

Una buona valutazione clinica incluso uno studio meticoloso del sistema nervoso centrale e delle strutture dell’orecchio del naso e della gola sono obbligatorie.
Nel caso in cui ci trovassimo di fronte ad una palese regressione o variazione nella gravità del linguaggio, una elettroencefalografia durante il sonno può essere utile a riconoscere una epilessia sub-clinica o sindromi come quella di Landau-Kleffner.

Segnali di rischio per i disturbi del linguaggio


Il bambino a qualsiasi età non reagisce ai suoni
, non si muove o si agita quando si provoca un suono, assenza lallazione a 9 mesi.

  • Tra i 18 e i 24 mesi non dice alcuna parola;
  • Dopo i 2 anni non esegue semplici comandi verbali;
  • Ad ogni età ha una voce strana e sgradevole

E’ necessario un controllo tempestivo, per accertarsi se esistano problemi uditivi, di linguaggio o di altra natura. La precocità nella diagnosi è infatti fondamentale per la buona riuscita di qualsiasi tipo di trattamento. La valutazione logopedica deve sempre essere preceduta da una valutazione neuropsichiatrica infantile. Questa valutazione permetterà di rilevare eventuali disturbi neurologici e/o psichici alla base dell’alterazione del linguaggio e/o ad esso associati.

Il lavoro del logopedista sul bambino che non parla

Il logopedista esamina le capacità conversazionali del bambino e le sue capacità di esprimersi attraverso il linguaggio tramite prove e colloqui allo scopo di individuare i suoi punti deboli e i suoi punti di forza. La valutazione logopedica comprende un primo colloquio con i genitori per raccogliere informazioni sullo sviluppo comunicativo e linguistico del bambino e sulle sue modalità comunicative con una breve osservazione del bambino e la compilazione della sua cartella.

La valutazione del linguaggio avviene sempre in contesti ludici con somministrazione di test standardizzati. I test permettono di comprendere l’esistenza di un ritardo e la sua entità.

La percentuale di bambini con un forte ritardo linguistico a due anni oscilla tra il 9% e il 17% con una prevalenza di maschi rispetto alle femmine.
I bambini che parlano tardi vengono in genere identificati con questo criterio: producono meno di dieci parole diverse ( nella fascia di età 18-23 mesi) o producono meno di 50 parole diverse e nessuna combinazione di almeno due parole (nella fascia di età di 24-34 mesi).

L’ampiezza del lessico di produzione viene in genere stabilita attraverso un questionario fornito ai genitori (Caselli & Casadio, 1995), ma viene poi riesaminata attraverso osservazioni dirette. E’ importante escludere che ci siano fattori cognitivi, percettivi, neurologici, alla base del ritardo linguistico. Questo viene in genere appurato somministrando un test di efficienza intellettiva (ad esempio, le “scale Bailey” che valutano lo sviluppo senso motorio), compiendo un esame audiologico e neurologico.

E’ anche importante stabilire se il bambino abbia una comprensione lessicale buona, utilizzando ancora una volta un questionario per i genitori oppure qualche semplice test di conoscenza lessicale.
Vengono definiti “bambini che parlano tardi” (late talkers, [leittokes]) i soggetti che hanno un normale sviluppo intellettivo e socio-affettivo, e che non hanno alcun apparente danno neurologico.

Una comune caratteristica dei bambini che parlano tardi è un forte ritardo fonologico che si accompagna al ritardo nella produzione lessicale.
Molti bambini che a due anni hanno una produzione fonologica e lessicale immatura, tipica di soggetti più piccoli, intorno ai tre anni sembrano aver recuperato il ritardo: hanno un lessico piuttosto ampio, molti dei loro enunciati sono comprensibili e iniziano a combinare parole.
Questi bambini sono definiti in inglese con una graziosa espressione, late bloomers ([leitblumes]), bambini che sbocciano tardi.

Roberts, Rescorla, e collaboratori (1998) hanno osservato a 3 anni un gruppo di bambini che erano stati identificati per il loro ritardo linguistico tra i 24 e 31 mesi di età. Rivedendoli a 3 anni, circa la metà dei soggetti può considerarsi late bloomers: produce un numero di enunciati comprensibili equivalente a quello di un gruppo di controllo (19 bambini di 3 anni, con sviluppo linguistico tipico), anche se la loro produzione fonologica è ancora più indietro rispetto al gruppo di controllo. Anche le frasi sono più brevi e meno complesse sintatticamente rispetto al gruppo di controllo.

Altri studi permettono di individuare le caratteristiche del ritardo linguistico che sono maggiormente predittive dello sviluppo linguistico successivo. Per un bambino che a due anni produce pochissime parole (nell’ordine della decina), la probabilità di avere un rapido progresso a livello lessicale dipende dal suo livello di sviluppo fonologico, che può essere indicato dai diversi tipi di consonanti che sa utilizzare.

La probabilità di recuperare a livello di sviluppo sintattico entro i tre anni non può invece essere predetta né dallo sviluppo fonologico né da quello lessicale, ma soltanto dall’età di comparsa delle prime combinazioni di parole (Mirak & Rescorla, 1998). I bambinI che intorno ai 31 mesi non producono alcun enunciato con una combinazione di almeno due parole hanno un’alta probabilità di mantenere il ritardo nello sviluppo sintattico anche a 3 anni.
Per molti bambini il ritardo linguistico sembra risolversi nell’età prescolare tra i 4 e i 5 anni, ma per alcuni il ritardo si prolunga.
Per i bambini che hanno un ritardo di linguaggio a 4-5 anni si usa il termine “disturbo specifico di linguaggio” (DSL).

Alcune procedure sono fondamentali per compiere una diagnosi di disturbo specifico di linguaggio: Stabilire (attraverso test standardizzati) se il linguaggio del bambino è in ritardo nella produzione fonologica, e/o lessicale, e/o sintattico-morfologica.
Stabilire se c’è un ritardo nella comprensione di enunciati con diverse strutture grammaticali. Osservare, in una situazione il più naturale possibile per il bambino, la sua capacità di comprendere il linguaggio e di farsi capire attraverso il linguaggio.

Escludere, somministrando test di sviluppo cognitivo e motorio, che il ritardo linguistico sia parte di un più generale ritardo di sviluppo.
Escludere che vi sia un disturbo della comunicazione di origine emotiva, o un deficit uditivo o un impedimento fisico all’articolazione.

Una comune classificazione del disturbo specifico di linguaggio distingue tre sottotipi (cfr. Cipriani e Chilosi, 1995): un disturbo specifico in cui la difficoltà è limitata al livello fonologico un disturbo del linguaggio “espressivo”. In questo caso le difficoltà interessano sia la fonologia sia la struttura sintattica e morfologica ma sono limitate alla produzione linguistica e non riguardano la comprensione un disturbo del linguaggio “recettivo”, in cui la comprensione, oltre che la produzione di enunciati risulta deficitaria.

Se non vengono precocemente diagnosticati e trattati in maniera adeguata i DSL possono avere serie ripercussioni sul funzionamento individuale e sociale del soggetto.Tra le conseguenze più frequenti vanno segnalate problematiche di tipo emotivo e comportamentale e, con l’ingresso nella scuola, difficoltà di apprendimento.

Con il termine “Disturbi specifici dell’Apprendimento” (DSA) ci si riferisce ad un gruppo eterogeneo di disordini che si manifestano con difficoltà nell’acquisizione e nell’utilizzo di abilità di lettura, scrittura, ragionamento logico e matematica. La causa di questi disturbi è di natura organica. Presumibilmente legata a disfunzioni del sistema nervoso centrale e non può essere attribuita alla presenza di altre condizioni di handicap. All’interno della categoria dei DSA rientrano una serie di disturbi indipendenti l’uno dall’altro, ma che spesso si presentano in maniera associata, tra i quali: “disturbo specifico di lettura”, “disturbo specifico di comprensione del testo scritto”, “disturbo specifico di scrittura”, e “disturbo specifico del sistema dei numeri e del calcolo”.

Il “disturbo specifico di lettura” (dislessia) (incidenza 2%-2,5%) è un disturbo inerente all’acquisizione e all’automatizzazione delle capacità di decodifica del materiale scritto. Da un punto di vista clinico, la lettura di un bambino dislessico risulta essere molto lenta (deficit di rapidità) e/o ricca di errori (deficit di accuratezza). A queste difficoltà spesso si aggiungono secondariamente problemi nel comprendere ciò che è stato letto. In molti casi la dislessia si presenta in comorbidità con altri disturbi specifici dell’apprendimento (disortografia e discalculia) e con deficit di natura attentiva.

Uno dei concetti chiave nella diagnosi della dislessia è quello di discrepanza tra le abilità di lettura del soggetto e il livello generale di intelligenza. Questa, non eseguibile prima della fine della seconda elementare, si basa su prove di lettura di liste di parole di diversa lunghezza, di non parole e di brani. I principali fattori di rischio per la dislessia sono: la familiarità per il disturbo e la presenza di disturbi del linguaggio, anche se risolti in età prescolare.

Un altro disturbo che si colloca all’interno dei DSA è il “disturbo specifico di comprensione del testo scritto”. Comprendere un brano è un’attività estremamente complessa che richiede di far fronte a diverse difficoltà di natura lessicale, semantica e morfo-sintattica e che si basa su buone capacità di tipo metacognitivo (capacità sulle quali, nella maggior parte dei casi è mirato l’intervento). Uno degli strumenti che vengono utilizzati per la diagnosi sono le “prove MT di comprensione” (Cornoldi e Colpo, 1998, 1995). È abbastanza raro riscontare un disturbo specifico di comprensione in assenza di altre difficoltà. Deficit di comprensione avranno pesanti ripercussioni su tutte le materie scolastiche.

La disgrafia: un disturbo che colpisce i bambini

Oltre a problemi inerenti alla lettura, possono rincontrarsi nei bambini deficit che riguardano i processi di scrittura. Con il termine “disturbo specifico di scrittura” si fa riferimento principalmente alla disgrafia ed alla disortografia. E’importante comunque distinguere bene le due cose (clicca qui per approfondire nel nostro articolo).

La disgrafia consiste in un deficit nella realizzazione grafica del segno scritto, mentre la disortografia è un disturbo caratterizzato da deficit nelle abilità di compitazione e, quindi dalla presenza di errori di tipo ortografico. Tra questi errori vanno menzionati: confusione tra fonemi simili, confusione tra grafemi simili, omissioni doppie, etc. Le prove utilizzate per la diagnosi fanno parte della “Batteria per la valutazione della dislessia e disortografia evolutiva (Sartori, Job e Tressoldi, 1995).

Infine tra i DSA va segnalato il “disturbo specifico del sistema dei numeri e del calcolo”. In questo caso le difficoltà riguardano soprattutto le abilità numeriche di base: conteggio all’indietro, trancodifica di numeri lunghi e complessi e recupero dei fatti aritmetici. Accanto a questi problemi vanno poi menzionati deficit inerenti alle procedure di calcolo. Tra gli strumenti diagnostici per la discalculia va ricordato l’ABCA, test delle abilità di calcolo aritmetico (Lucangeli, Tressoldi, Fiore, 1998).

La prima cosa da tenere a mente quando ci si trova di fronte ad un DSA è che è un problema derivante dalla mancanza di impegno o intelligenza. È molto importante effettuare una diagnosi adeguata e precoce e che questa venga compresa e condivisa dalla famiglia e dalla scuola. Spesso i bambini con DSA vengono rimproverati per le loro difficoltà ed il loro disturbo non trova alcuna legittimazione. Questo può portare a conseguenze serie come: disturbi del comportamento, disturbi emotivi e dispersione scolastica. Per quanto riguarda il trattamento, questo cambia in base alla gravità e all’età in cui viene fatta la diagnosi. In molti casi l’obiettivo non deve essere la guarigione, ma il raggiungimento di un buon grado di autonomia attraverso la compensazione.

Esistono programmi di videoscrittura e di lettura di brani da parte del computer. Soprattutto esistono leggi che tutelano il bambino con DSA all’interno della scuola.

Logopedia computerizzata: le nuove tecniche riabilitative

Logopedia

Dalla tradizione alle nuove tecniche riabilitative: come la logopedia computerizzata in aiuto al trattamento riabilitativo delle patologie del linguaggio.

Dalla tradizione alle nuove tecniche riabilitative nel mondo della logopedia

Era il 14 settembre 1994, quando il Ministero della Sanità regolamentò, attraverso il decreto legge n.742, la logopedia e la figura professionale del logopedista. Da quel momento in poi il logopedista è inquadrato come l’operatore sanitario che svolge attività di prevenzione e trattamento riabilitativo delle patologie del linguaggio. Uno studio applicato sulla comunicazione in età evolutiva, adulta e geriatrica, in termini di educazione e rieducazione.

Con lo scorrere dei decenni tale profilo professionale si è adeguato alle modalità terapeutiche. Il logopedista si è dunque adeguato alle esigenze dettate dall’evoluzione tecnologica e dalla modernità.

Manuali e protocolli didattici rappresentano la base teorica di una scienza che, in questo caso specifico è per lo più applicata e fortemente legata all’esperienza. Quello che sembra essere accaduto durante questi anni nella branca della logopedia è che nonostante il tentativo di adeguarsi all’avanguardia del momento è che ci si sia fossilizzati su una pratica statica e standardizzata ferma di qualche gradino più indietro rispetto ai mezzi e agli strumenti attualmente a disposizione.

Come dovrebbe agire un ottimo logopedista?

Creatività, fantasia e capacità di adattamento si inseriscono, insieme all’empatia e alla tecnica, tra le caratteristiche indispensabili che fanno del logopedista un ottimo professionista. Ciò che però realmente evidenzia l’efficacia di una buona terapia sono i risultati ottenuti e la soddisfazione del paziente.

Nell’immaginario collettivo, nonostante siano passati ormai quasi vent’anni da quel decreto, la figura del logopedista non è ancora accreditata nella maniera corretta. D’altro canto non è semplice individuare il vero elemento di tutto il sistema:

Risiede forse nell’organizzazione formativa e quindi in ambito universitario? Appartiene alla coscienza individuale del terapista e alla sue capacità intuitive? È da ricercare all’interno delle reti sanitarie pubbliche e/o private?

Dati oggettivi dimostrano come gran parte dei trattamenti, indifferentemente dal tipo di patologia considerata, tendono a perdere di vista l’obiettivo finale del piano programmato. Si rischia così di allungarne la durata e i costi.

Sinergia col paziente per arrivare alla miglior terapia possibile

Procedendo in questo modo non si ha la possibilità di verificare l’andamento del lavoro diventa faticoso rintracciare i miglioramenti e confrontarli con la situazione di partenza. Sia il paziente che il terapista continuano a sprecare energie che, il più delle volte, convergono in punti diversi di piani paralleli, senza ottenere minimamente il risultato desiderato.

Così facendo il malcontento si diffonde ma nessuno si ingegna nella ricerca di una scappatoia, piuttosto si tende a scaricare la colpa sul mancato impegno da parte del paziente, nonché sulla poca professionalità del terapista o, ancor peggio, ci si aggrappa a luoghi comuni e dicerie confusionarie.

Eppure gli strumenti, i mezzi e le idee per creare e reagire a nuovi stimoli non dovrebbero mancare a un logopedista, nel 2013. I video presenti su questo sito rappresentano solo una parte della casistica trattata dai professionisti del suddetto studio e sono la dimostrazione oggettiva di quanto una terapia svolta secondo obiettivi ben definiti possa portare al raggiungimento completo degli stessi.

Nuovi principi di base in aiuto alla logopedia

I principi di base che vengono osservati non sono mistici né sovrumani, non si tratta nemmeno di novità rivoluzionarie sorprendenti, ma semplicemente del giusto equilibrio tra multidisciplinarità, confronto, individualizzazione e ottimizzazione di tempi, tecniche riabilitative e strumenti computerizzati.

Supponendo di dover prendere in carico un paziente con una alterazione della voce, l’iter prevedrebbe:

• Raccolta anamnestica.

• Registrazione di un brano di lettura standardizzato, all’interno del quale sono presenti elementi valutativi essenziali per una analisi multi-parametrica della voce.

L’importanza di questo step non si sofferma soltanto sulla possibilità di analizzare le caratteristiche percettive della voce al momento del primo ingresso. Vanno infatti effettuate ulteriori registrazioni dello stesso, con valore di FOLLOW-UP ossia confronto tra lo stato iniziale e l’evolversi dello stato patologico in itinere. Infine tramite una registrazione ultima, determinante la conclusione del trattamento e la prova evidente ed oggettiva del risultato ottenuto.

Questo passaggio viene omesso in gran parte delle strutture che si occupano di riabilitazione. La presenza di prove oggettive confrontabili è infatti un’arma a doppio taglio. Nonostante da un lato si valorizzi il lavoro e la competenza del professionista, dall’altro è segno manifesto di un possibile fallimento. Dato che spesso il peso della sconfitta ha valore maggiore che un lavoro svolto correttamente, si preferisce protrarre a lungo terapie risolvibili in un ciclo regolare.

Esami logopedia: gli strumenti computerizzati 

E’ evidente che ci ritroviamo di fronte a uno di quegli elementi presi in esame prima, motivo di screditamento per l’intera categoria.

Per fare un esempio di strumenti computerizzati c’è lo spettrogramma vocale che analizza il tutto tramite l’esame multidimensionale della voce. Questi esami vengono eseguiti mediante software pensati per la diagnosi e la rieducazione di patologie del linguaggio, mediante strumenti di feedback audio-visivi (tra i migliori diffusi e utilizzati in Italia c’è il “Sona Speech II 3650”). 

Ciò che fa la differenza nell’uso di determinati software è la capacità di personalizzarne l’utilità in base al paziente e alle sue esigenze. Certamente esistono un manuale e un protocollo che indicano per filo e per segno tutti i passi da percorrere, ma l’abilità del terapista sta proprio nell’effettuare una task analysis individuale evitando di agire per tutti allo stesso modo.

Inoltre è fondamentale informare continuamente il paziente attraverso il counseling, renderlo consapevole della sua situazione senza tralasciare alcun passaggio, fino al termine della terapia.

Talvolta, quando si è incerti dell’esito riscontrato, è opportuno richiedere un approfondimento foniatrico che ci permetta di chiarire il quadro diagnostico.

Mediante la “laringostroboscopia”, esame di vecchia adozione ma ormai tralasciato dalla maggior parte degli specialisti, è possibile studiare dettagliatamente ogni istante del ciclo vibratorio cordale e individuare il deficit con una bassissima probabilità di errore. Anche in questo caso la differenza la fa la modalità d’uso di tale strumento. Non è funzionale conservare l’immagine delle CCVV nell’album fotografico del nostro corpo, lo è invece interpretarla per la diagnosi.

 

I disturbi del linguaggio infantile

Disturbi del linguaggio infantile

L’acquisizione del linguaggio del bambino dovrebbe percorrere una serie di tappe evolutive fisiologiche perlopiù comuni per fasce d’età ben definite, a partire dai primi vocalizzi, passando per la lallazione, fino ad arrivare ad una produzione verbale che rassomigli a quella adulta.
I range entro i quali ogni tappa dovrebbe collocarsi possono però subire delle variazioni dovute a fattori di natura organica e non.

Nel primo caso si tratterebbe di sindromi congenite, otiti ricorrenti, lesioni celebrali. Allo stesso modo deprivazioni socio-culturali o affettive, abitudini viziate e modelli di riferimento scorretti potrebbero portare il bambino ad una espressione scarsamente intellegibile. 
La competenza comunicativa risulterà dunque alterata in termini di forma (fonetica, fonologia, morfologia, (sintassi), funzione (pragmatica, narrativa, dialogica, relazionale) e contenuto (lessico, semantica).

 

La diagnosi


In base all’area interessata si potrà distinguere ed inquadrare il tipo di lavoro da svolgere durante il trattamento, procedendo quindi attraverso un approccio valutativo diagnostico mirato, efficiente ed efficace.

Attualmente la presa in carico di tale disturbo avviene più precocemente rispetto a qualche tempo fa. La sensibilità del care giver, sia esso genitore o insegnante, si è andata via via affinando.
Ad oggi si sottopone il bambino a valutazione logopedica già intorno all’età dei due anni e mezzo tre. 

Disturbi del linguaggio infantile: logopedia pediatrica

 

Spesso però, nonostante la tempestiva individuazione dell’anomalia, i tempi di recupero risultano essere ampiamente dilatati. Le modalità di intervento troppo radicate a protocolli dei quali si tende a perdere di vista la reale utilità.

Un disturbo di linguaggio trascinato per tutto il periodo della scuola dell’infanzia creerà indubbiamente una confusione generalizzata nella sfera degli apprendimenti: 

  • il bambino non sarà in grado di riconoscere nè transcodificare correttamente il fonema in grafema, per questo motivo subirà rallentamenti nell’esecuzione dei dettati;
  • incontrerà difficoltà nella produzione scritta in quanto effettuerà errori ortografici e sintattici;avrà dei limiti nella lettura e, conseguentemente, nella comprensione del testo.

In situazioni del genere il bambino, oltre a subire un calo in ambito scolastico deve affrontare un carico emotivo relativo al peso del suo insuccesso. L’unione di questi fattori andrà a ledere la sua autostima e ad influenzare la naturalezza degli scambi comunicativi.
La modalità d’intervento maggiormente diffusa per casi di questo tipo prevede un piano di trattamento lungo e duraturo, con incontri plurisettimanali e cicli sterili e ripetitivi che andrebbero avanti per anni.

Adottando un approccio di tipo immediato e individualizzato e ponendo la giusta attenzione nell’osservazione delle dinamiche genitore-bambino, insegnante-bambino è possibile ottenere risultati soddisfacenti con cicli terapeutici brevi ed essenziali. In questo modo verrà evitato che il disturbo degeneri in ostili complicanze.

La dimostrazione video 

 

Per dimostrare fenomenologicamente quanto detto, inseriamo qui il link di un video, prova oggettiva dell’evoluzione del linguaggio di un paziente trattato dal team del suddetto studio: http://youtu.be/dj4SrwTwmrc

La differenza tra il momento iniziale e quello finale del trattamento è udibile anche ad un orecchio meno esperto. Il bambino in questione è stato preso in carico all’età di quattro anni ed è stato inserito nella scuola primaria senza alcuna difficoltà, completamente al passo con i suoi coetanei e privo di vissuti emotivi penalizzanti

Grazie all’oggettivazione del lavoro svolto, il divenire del trattamento potrà essere continuamente monitorato. I cambiamenti e miglioramenti registrati e confrontati tra loro con il fine ultimo di azzerare il gap e adeguare le capacità del bambino alla sua età anagrafica.

Logopedia pediatrica: disturbi del linguaggio infantile

Logopedia pediatrica

La logopedia pediatrica è presa in esame nel nostro Studio Medico M2D grazie alla Dottoressa Dellavalle. L’acquisizione del linguaggio del bambino dovrebbe percorrere una serie di tappe evolutive fisiologiche perlopiù comuni per fasce d’età ben definite. A partire dai primi vocalizzi, passando per la lallazione, fino ad arrivare ad una produzione verbale che rassomigli a quella adulta.
I range entro i quali ogni tappa dovrebbe collocarsi possono però subire delle variazioni dovute a fattori di natura organica e non.

Nel primo caso si tratterebbe di sindromi congenite, otiti ricorrenti, lesioni celebrali. Allo stesso modo deprivazioni socio-culturali o affettive, abitudini viziate e modelli di riferimento scorretti potrebbero portare il bambino ad una espressione scarsamente intellegibile.

 

Quali sono le disfunzioni del linguaggio infantile

 

La competenza comunicativa risulterà dunque alterata in termini di forma (fonetica, fonologia, morfologia, (sintassi), funzione (pragmatica, narrativa, dialogica, relazionale) e contenuto (lessico, semantica).

In base all’area interessata si potrà distinguere ed inquadrare il tipo di lavoro da svolgere durante il trattamento. Procedendo quindi attraverso un approccio valutativo diagnostico mirato, efficiente ed efficace.

Attualmente la presa in carico di tale disturbo avviene più precocemente rispetto a qualche tempo fa. La sensibilità del care giver, sia esso genitore o insegnante, si è andata via via affinando, al punto da sottoporre il bambino a valutazione logopedica già intorno all’età dei due anni e mezzo tre.

Logopedia pediatrica: tempi di recupero

Spesso però, nonostante la tempestiva individuazione dell’anomalia, i tempi di recupero risultano essere ampiamente dilatati e le modalità di intervento troppo radicate a protocolli dei quali si tende a perdere di vista la reale utilità.

All’interno del nostro Studio Medico M2D si ha la possibilità di lavorare tramite un professionista logopedista. Un disturbo di linguaggio trascinato per tutto il periodo della scuola dell’infanzia creerà indubbiamente una confusione generalizzata nella sfera degli apprendimenti: 

  •  il bambino non sarà in grado di riconoscere nè transcodificare correttamente il fonema in grafema, per questo motivo subirà rallentamenti nell’esecuzione dei dettati;
  •  incontrerà difficoltà nella produzione scritta in quanto effettuerà errori ortografici e sintattici; avrà dei limiti nella lettura e, conseguentemente, nella comprensione del testo.  

In situazioni del genere il bambino, oltre a subire un calo in ambito scolastico, si troverà a dover affrontare un carico emotivo-relazionale, direttamente proporzionale al peso del suo insuccesso. L’unione di questi fattori andrà a ledere la sua autostima e ad influenzare la naturalezza degli scambi comunicativi.

La modalità d’intervento maggiormente diffusa per casi di questo tipo prevede un piano di trattamento lungo e duraturo. Questo avverrà con incontri plurisettimanali e cicli sterili e ripetitivi che andrebbero avanti per anni.

Adottando un approccio di tipo immediato e individualizzato e ponendo la giusta attenzione nell’osservazione delle dinamiche genitore-bambino, insegnante-bambino è possibile ottenere risultati soddisfacenti con cicli terapeutici brevi ed essenziali. Ovviamente bisogna evitare che il disturbo degeneri in ostili complicanze.

Per dimostrare fenomenologicamente quanto detto, inseriamo qui il link di un video, prova oggettiva dell’evoluzione del linguaggio di un paziente trattato dal team del suddetto studio:

La differenza tra il momento iniziale e quello finale del trattamento è udibile anche ad un orecchio meno esperto. Il bambino in questione è stato preso in carico all’età di quattro anni ed è stato inserito nella scuola primaria senza alcuna difficoltà, completamente al passo con i suoi coetanei e privo di vissuti emotivi penalizzanti

Grazie all’oggettivazione del lavoro svolto, il divenire del trattamento potrà essere continuamente monitorato. I cambiamenti e miglioramenti registrati e confrontati tra loro con il fine ultimo di azzerare il gap e adeguare le capacità del bambino alla sua età anagrafica.